La fossa comune
di Alessandro Bastasi
Il senso del libro è tutto riconducibile a una data fondamentale per la Russia moderna: lunedì 4 ottobre 1993. In quel giorno quello che restava della vecchia Unione sovietica è stato spazzato via dalle cannonate di Eltzin. Calata in questo scenario, la storia del protagonista Vittorio Ronca, coinvolto in un attentato al presidente russo, è emblema della storia delle illusioni delle donne e degli uomini che avevano vent’anni nel 1968 e che, storditi dalla Milano da bere e dal trionfo degli yuppies degli anni ’80, hanno creduto di intravedere, attraverso le macerie del muro di Berlino, nuove prospettive possibili per l’umanità. Ma anche queste sono abbattute dai carri armati che danno l’assalto alla Casa bianca sulle rive della Moscova in quel freddo lunedì di sole.
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1 commento:
Ciao!
Elisa, nel suo blog, ha inserito una recenzione del mio "La fossa comune". Eccola!
La fossa comune, purtroppo, è un titolo che spaventa, poco invitante. Dico purtroppo perché è il titolo giusto per questo romanzo.
È proprio l’indifferenza della Fossa comune che sta alla base di tutto, dei personaggi, delle volontà, delle lotte sempre più vane che si susseguono e che non portano a nulla, come le corse che facciamo nei sogni, che ci affaticano senza mai farci avanzare.
Non è però un romanzo tetro o angosciante come il titolo potrebbe farci credere, anzi la prima parte è scorrevole e piacevole, si sorride spesso, prima di rimanere con una sensazione sempre più persistente di amaro in bocca, che ci fa corrugare la fronte e ci fa terminare la lettura fissando un punto vuoto e pensando all’inutilità. Non del libro, che anzi è una buona lettura, sebbene molto intensa e a tratti quasi faticosa (o forse faticoso è stato il periodo in cui l’ho letto), nonostante l’impeccabile veste editoriale, interamente opera dello scrittore, che non ha certo avuto editor ad aiutarlo nel suo percorso e ha invece coraggiosamente pubblicato in modo indipendente un prodotto di tutto rispetto. L’inutilità dell’esistenza, invece, o di alcune esistenze, come quella di Vittorio Ronca, il protagonista del romanzo di Bastasi, che vuole di più, a cui non basta mai, che è sempre in cerca, che non è mai arrivato né è mai soddisfatto. Tutti pregi, tutti elementi necessari a vivere la vita pienamente, ma non quando questa ricerca è vana, quando il tutto si basa su fragili illusioni che non vogliamo accettare come tali.
Vittorio è un sognatore, è un utopista, e forse il momento più bello e più vero della sua vita è quello in cui accetta la propria dimensione e vive da sognatore in una casa di ringhiera, accontentandosi delle proprie passioni e dividendo qualche spaghettata con i suoi amici “extracomunitari”. In quei momenti Vittorio vive intensamente e ha diritto di essere sognatore, ma chi sogna troppo tende a volere di più, e così ogni volta Vittorio si ritrova insudiciato da una realtà che egli stesso ripudia, si ritrova a sognare la sua utopia ma con le mani sporche, e quindi si ritrova a desiderare altro, a desiderare di essere altrove, a non essere mai soddisfatto, insomma, a non averne mai abbastanza.
La vita è semplice ai semplici, verrebbe da dire, parafrasando Manzoni. Non è però il messaggio in cui crede Bastasi. Perché Vittorio, nei suoi ideali, crede: crede fino in fondo, fino alla fine. E i suoi ideali sono giusti, sono quelli di una persona “informata sui fatti”, colta, istruita. È lo spirito del personaggio che rende vano lo sforzo.
Uno dei personaggi che ho più amato (e credo uno di quelli che lo stesso Bastasi ami di più) è Andrej, un ragazzo russo che Vittorio incontra in un suo viaggio-fuga a New York e che rimarrà elemento cruciale nella sua vita. L’ho amato perché Andrej sembra possedere una cosa rara: la conoscenza. In primo luogo la conoscenza della propria sessualità, anche in una Russia ideologicamente strangolata dal socialismo reale. Ma anche la conoscenza del proprio spirito, di ciò che si desidera, e quindi la conoscenza di quali si crede possano essere i propri traguardi. Lo sguardo di Andrej è dolce e comprensivo, come quello di Vittorio non riesce mai a essere.
Oggi spiegavo il saggio A room of one’s own agli studenti, e in particolare il passaggio nel quale la Woolf cita Coleridge dicendo che “a great mind should be androgynous”. Ebbene, Andrej riesce a racchiudere in sé un’androginia che gli permette di essere superiore alle instancabili lotte interiori che consumano Vittorio, il quale, invece, è sempre troppo concentrato su di sé, su quell’io che gli uomini usano tanto spesso (e la scena in cui lui fugge all’aggressione lasciando la propria donna in fin di vita lo dimostra in modo drammatico).
È lo stesso Andrej a rimproverare Vittorio di essere “stupido, insensibile ed egoista”, e in quest’ultima parola risiede il senso ultimo del romanzo, io credo. La differenza tra Vittorio e Andrej è che questi pensa in primo luogo agli altri e non a sé. “È sulle persone che occorre investire”, dice Andrej “sulle persone, sul loro essere, questo sì, reali, presenti, disponibili. È di lì che devi partire se proprio la vuoi cambiare, questa realtà”.
Sono parole bellissime, che non poteva che pronunciare il personaggio più metafisico di tutto il romanzo, e che forse dichiarano la poetica stessa dell’autore. Se puntiamo alla rivoluzione per ottenere ciò che vogliamo noi, senza investire sulle persone, sugli esseri umani (e quindi sulla cultura, come ha fatto Andrej, costi quel che costi) non resterà nulla di noi, e i nostri grandi ideali scompariranno in una fossa comune, o in una manciata di polvere, altro titolo perfetto per questo romanzo, se non fosse già stato usato da Waugh.
L'indirizzo è:
http://tigro.splinder.com/post/16838988#16838988
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